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Povertà e disabilità, si può fare (molto) di più.

Intervista al presidente di FISH, e Consigliere CNEL Vincenzo Falabella

“Le persone con disabilità e le loro famiglie si impoveriscono economicamente. E l’impoverimento economico diventa quasi sempre impoverimento sociale, emarginazione, a volte segregazione.” Con queste parole, Vincenzo Falabella, presidente di FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e Consigliere CNEL, sintetizza un problema che tocca migliaia di famiglie in Italia: l’intreccio tra povertà e disabilità. “Una situazione aggravata da politiche di sostegno insufficienti e da un sistema di welfare che spesso si limita a fornire aiuti economici senza affrontare realmente le cause profonde dell’emarginazione – spiega – Il sistema di welfare italiano ha bisogno di una riforma strutturale, capace di garantire un sostegno equo e realmente inclusivo. Penalizzare economicamente chi vive già una condizione di svantaggio è una scelta miope e ingiusta. È tempo di smettere di trattare la disabilità come una categoria marginale e di riconoscere che l’inclusione non è un privilegio, ma un diritto fondamentale”.

Presidente Falabella, le misure attuali riescono a ridurre la povertà tra le persone con disabilità?
Assolutamente no. Le politiche messe in campo sono puramente risarcitorie: invece di valorizzare la persona, si limitano a compensare le condizioni di disagio in cui essa si trova a vivere. Questo vale per la generalità degli interventi rivolti alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Lo abbiamo visto chiaramente durante la pandemia: il sistema di welfare non ha protetto chi ne aveva più bisogno, ovvero le persone vulnerabili. Questa mancanza di protezione ha avuto conseguenze pesantissime, non solo per le persone con disabilità, ma anche per i loro familiari.

Qual è la condizione dei caregiver familiari, soprattutto in relazione alla povertà?
Oggi in Italia il caregiver familiare non è riconosciuto né tutelato da una normativa adeguata, se non attraverso interventi spot e frammentari. Questa assenza di tutele ha un impatto devastante: molte persone, soprattutto donne, lasciano il lavoro per dedicarsi all’assistenza, con conseguenze economiche gravissime, ma anche con un forte rischio di isolamento sociale. Servono misure strutturali e lungimiranti, che permettano ai caregiver di scegliere se dedicarsi esclusivamente all’assistenza o di inserirsi (o reinserirsi) nel mondo del lavoro. Non possiamo più accettare che questa figura venga ignorata o marginalizzata.

Il problema è solo economico? Lo Stato deve investire di più?
Non è solo una questione di soldi. Negli ultimi anni la spesa sociale è aumentata esponenzialmente, ma questo non ha portato a un miglioramento reale delle condizioni di vita. Il motivo? Le esigenze e i bisogni delle persone sono cresciuti, ma le risposte fornite dallo Stato sono rimaste inadeguate. Serve un cambio di prospettiva: il welfare non deve essere solo assistenziale, ma deve valorizzare la persona nella sua interezza. Questo significa creare politiche mirate per istruzione e lavoro, perché senza accesso al mondo scolastico prima, e a quello lavorativo poi, l’inclusione resta un miraggio. Bisogna poi abbassare il costo del lavoro, perché oggi la pressione fiscale colpisce duramente anche i lavoratori con disabilità, rendendo ancora più difficile la loro integrazione professionale.

Le misure contro la povertà raggiungono davvero le persone con disabilità?
No, perché si tratta di interventi tampone, meri trasferimenti economici che risolvono la situazione solo momentaneamente. Invece di erogare “mance e mancette”, dovremmo costruire politiche che permettano alle persone con disabilità di essere produttive e quindi autonome. Tra una persona povera che riceve un sussidio e una persona povera che viene accompagnata a diventare parte attiva della società, non ho dubbi: preferisco la seconda.

La legge 85/2023 ha incluso le persone con disabilità tra i destinatari delle nuove misure di contrasto alla povertà. È un passo avanti o un rischio?
È sicuramente un passo in avanti, ma non cadrei nell’errore concettuale di categorizzare le persone per evitare di scatenare una guerra tra poveri. C’è invece una criticità da risolvere: con il nuovo Assegno di Inclusione (Adi), come peraltro già accadeva con il Reddito di Cittadinanza, le persone con disabilità risultano penalizzate. Un esempio concreto: una persona con disabilità con gli stessi requisiti per accedere alla misura di una persona senza condizione di disabilità, riceve una somma inferiore in quanto già titolare di pensione di invalidità.

Perché questa differenza?
Il motivo è che la pensione di invalidità viene considerata una misura assistenziale e non previdenziale. Di conseguenza, viene decurtata dall’importo totale dell’Adi. In pratica, lo Stato tratta questa pensione come un “anticipo” di assistenza economica, riducendo di fatto il supporto garantito dall’Assegno di Inclusione. Questo meccanismo crea un paradosso inaccettabile: chi ha una disabilità, e quindi necessita di maggior supporto, si ritrova con meno risorse rispetto a chi non ha una condizione di disabilità. È inaccettabile, e dimostra che non siamo affatto privilegiati, anzi!

Quali sono quindi le vostre richieste?
1. Misure univoche e universali, in linea con la nostra Carta costituzionale.
2. Politiche di intervento certe, con una platea chiara di destinatari.
3. Dati concreti e aggiornati, perché senza numeri reali è impossibile costruire strategie efficaci.
4. Superare gli interventi spot e tornare a pensare in termini di decenni, non di settimane.

Abbiamo bisogno di una visione politica lungimirante, capace di guardare avanti e di costruire soluzioni durature. Solo così potremo garantire a tutte le persone, con e senza disabilità, la possibilità di vivere una vita piena e dignitosa.

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