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Le medaglie delle Paralimpiadi e le medaglie dei diritti

«Quando saranno archiviate le Paralimpiadi – scrive Vincenzo Falabella -, spetterà a chi nel nostro Paese governa e approva le leggi, alle diverse Istituzioni a livello centrale e locale, far capire che gli atleti e le atlete italiani che in questi giorni collezionano tante medaglie non sono “eroi della disabilità”, ma persone che come tutte le altre con disabilità rivendicano “semplicemente” una diversa cultura. Le Paralimpiadi, infatti, possono servire a contrastare tanti stigmi sulla disabilità, ma per vincere anche le “medaglie dei diritti”, servono quanto prima politiche adeguate»

C’è chi sostiene che un evento come le Paralimpiadi che si stanno svolgendo in questi giorni a Parigi rappresentino una sorta di “parata di eroi con disabilità” e che manifestazioni di questo genere non portino benefìci e ricadute positive alle persone con disabilità. Ad avviso di chi scrive, però, si sta sbagliando il focus del bersaglio. Perché, innanzitutto, l’attenzione mediatica delle paralimpiadi ha portato ad alcune conseguenze senza dubbio positive. E mi riferisco, qui, innanzitutto ad una rinnovata attenzione per il linguaggio utilizzato. Sembrerà scontato scriverlo, infatti, ma finalmente si parla di persone, non più soltanto di disabili. Buona la cerimonia di apertura, conoscenza, da parte dei giornalisti, della storia delle paralimpiadi e dei singoli atleti partecipanti, buono l’uso della terminologia, persone con disabilità invece che diverssamente abili. Poco conosciuti invece i principi della Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità. Infatti in molti passaggi delle telecronache si è sentito ancora parlare di “atleti con disabilità grave” o “atleti con limitazione funzionale grave”.

Altro dato positivo, quindi, da evidenziare, ancor più importante, è l’allontanamento dalla concezione medicalizzante che vede appunto le persone con disabilità come dei puri e semplici “malati da accudire”. Al riguardo, un efficace sintesi è data dalle parole pronunciate da Luca Pancalli, presidente del CIP (Comitato Italiano Paralimpico), quando ha ricordato che «ogni paralimpiade ha sempre rappresentato un passo in avanti nella promozione di una diversa percezione della disabilità, nel Paese ospitante e nel mondo». E che proprio «tale notevole copertura mediatica ha favorito la nascita di una nuova consapevolezza, stimolando preziose riflessioni sia sul ruolo sociale dello sport che sul concetto di abilità».

È in questa prospettiva, dunque, che tra i compiti di organizzazioni come la FISH, vi siano quelli di trasferire le ricadute positive di tali eventi nel concreto, nel quotidiano, da una parte per far crescere sempre di più il numero di persone con disabilità che si avvicinano allo sport, dall’altra parte, su un piano più generale, per il riconoscimento dei diritti nella scuola, nel mondo del lavoro, nella società tutta, nei diversi àmbiti di attività in cui è possibile rintracciare l’impegno della nostra Federazione.

Ma veniamo al punto. Già tra qualche settimana, quando saranno archiviate le Paralimpiadi, spetterà a chi nel nostro Paese governa e approva le leggi, alle diverse Istituzioni a livello centrale e locale, far capire che gli atleti e le atlete italiani che vediamo in questi giorni collezionare tante medaglie non sono “eroi della disabilità”, ma persone che come tutte le altre con disabilità rivendicano “semplicemente” una diversa cultura. La disabilità, infatti, non è una malattia, ma un’interazione con il mondo esterno. Ed è proprio a questo che servono gli eventi sportivi come le Paralimpiadi e non solo: a una proficua contaminazione per superare le barriere culturali, all’interazione delle persone con il mondo esterno per combatterne l’emarginazione.
Per rendere questo processo di cambiamento compiuto, tuttavia, servono politiche e interventi normativi adeguatamente finanziati e applicati, gli stessi che la FISH da anni considera necessari. Serve che il mondo del lavoro si possa aprire realmente alle persone con disabilità, perché ancora oggi la forbice tra disoccupati e disoccupati con disabilità è molto ampia, e ciò deriva da un pregiudizio: quello cioè di considerare la disabilità come improduttiva.
Credo allora che le Paralimpiadi possano servire a contrastare tali stigmi. Ma per far ciò, va ribadito, servono politiche adeguate, che tengano conto ad esempio del fatto che circa 300.000 alunni e alunne con disabilità frequentano le scuole italiane e che, come risulta dai dati del nostro Osservatorio, nella prima fase della pandemia essi non hanno usufruito quasi per nulla della didattica a distanza. E non solo: pensiamo infatti che sin dall’inizio della pandemia si sia verificata nei confronti di quelle ragazze e di quei ragazzi una vera e propria lesione di un diritto costituzionale, quello allo studio.
E da ultimo, ma non certo ultimo, sempre a proposito di Paralimpiadi, un giusto rilievo è stato dato al fatto che nella delegazione italiana – la più numerosa di sempre – le atlete superano per numero i colleghi maschi. Questo ci fornisce lo spunto per ricordare quanto sia importante dare sempre più evidenza, anche a livello istituzionale, al fatto che le donne con disabilità devono sin troppo spesso subire una discriminazione multipla, in quanto donne da una parte, in quanto persone con disabilità dall’altra. E questo è un settore d’impegno sul quale la nostra Federazione è già concretamente al lavoro ormai da molto tempo.

In definitiva, serve mettere in campo quelle politiche strutturali che rimettano al centro tutti i cittadini, compresi quelli con disabilità. Servono riforme affinché il mercato del lavoro diventi davvero inclusivo e la tutela della salute un diritto pienamente esigibile. Perché al di là delle stesse Paralimpiadi, ora serve un impegno politico concreto per tutte le persone con disabilità e le loro famiglie.

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